Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Il lungo tracciato che percorriamo, una nuova geografia, riferimenti topografici inaspettati che non troveremo mai sulle carte ufficiali del Chiarino – Gran Sasso d’Italia, ma che aleggiano e bisogna coglierli, impensabili per i demiurghi della montagna. Dalla Vaccareccia (1500 m.), ai valichi di sella di monte Corvo (2305 m.), sella del Vanacquaro (2236 m.), e sella Falasca (2187 m.), lo spirito, o meglio la memoria dei luoghi è di Giuseppe Capannolo, pastore e poeta, scomparso all’età di 100 anni e sei mesi, interprete nella struttura clanica dei seminomadi transumanti dove aveva un ruolo preminente nell’area montana antropizzata del Chiarino. Ed è così che quei luoghi venivano definiti: jacciu de Castrati, jacciu delle Solagne, jacciu dei Ciaccorra, scoglio di Filippone, jacciu di Carlucciu, Dente del pacoraio, jaccittu de Montoni (recinto in pietre a secco dove venivano separarti i montoni dal gregge per non farli accoppiare), Le Pozze. Ricoveri, mandroni in pietra a secco fortificati per contrastare i lupi, capanne semi cilindriche che sfruttavano, avvolgendoli, i grandi massi precipitati dalle Scaffette sul fianco meridionale di Monte Corvo, ricoveri provvisori contro le tempeste improvvise con poca acqua a disposizione nei rifugi e il fuoco che si prestava tra gli accampamenti dei pastori. Questa la narrazione tramandata oralmente in una storia leggendaria ancora tutta da scrivere, che vedremo, o forse potrebbe essere un trailer di un film. Il guardiano del marchese Cappelli a cavallo con il fucile a spalla, risale il Chiarino fino alla sella del Venacquaro, poi scende dalla groppa, prende la zappa dal basto e traccia un lungo solco che unisce due cippi in pietra tra la cima del Venacquaro e Colle Tunnu: alle loro pendici ancora oggi il laghetto che si forma sulla stessa sella. Un personaggio tra i tanti – il guardiano – contrapposto a Capannolo che sembrano usciti dai racconti di Giovanni Verga (scrittore italiano del XIX secolo, fondatore del Verismo). “Libertà “, è la sua novella, forse da associare anche ai pastori di Arischia dentro le schiavitù, le rivolte, le condizioni miserevoli, la fame e il desiderio di riscatto, appunto in un romanzo del ‘900, per emendarsi dal potere: è questo che penso mentre risaliamo dalla Vaccareccia, imbuto geologico, ha tratti in strette forre dove l’acqua nasce per poi scomparire come in un arcano mistero, sinonimo di un inquieto paesaggio, duro, silenzioso e spietato nel lavoro, dall’alba al tramonto, e la notte a vegliare i recinti… Il Venacquaro, è lì che siamo diretti. La figura del guardiano, quindi, leggendaria, già di per sé intimoriva i pastori, stazionava su Colle Tunnu dove aveva tracciato appunto il solco, una sorta di confine invalicabile, è controllava perché i pastori al pascolo non lo oltrepassassero, non dovevano sconfinare. Il fucile come deterrente, raccontava Capannolo, ma prima c’erano le sanzioni in denaro. Venacquaro quasi impronunciabile, la località del passo e poi la valle sottostante per i nativi era, invece, Buonacquaro il buon auspicio, la buona acqua, come se la montagna divinità, che si nutre anche dei miti, avesse partorito una sorgente d’acqua nella landa desertificata e inospitale per il pascolo, tanto che adesso ai nostri piedi è di un verde lussureggiante, un eden, complici anche le copiose piogge di questi giorni. Ma torniamo ai solchi scavati con la zappa dal guardiano del Chiarino che culminavano sui due cippi in pietra calcarea: si fronteggiano ancora oggi, infissi sui rilievi della sella del Venacquaro. I monoliti, i cippi in pietra presentano due facce esposte rispettivamente in direzione della valle del Venacquaro (a Est) che scolpite evidenziano un cappello e le lettere M e C, cioè marchese Cappelli; mentre l’altra faccia del cippo è rivolta in direzione della valle del Chiarino (a Ovest) sulla quale sono incise due lettere C e A: comune di Arischia. La montagna e il pascolo sono spartiti, la suddivisione dei confini è ribadita dai due soggetti attuatori dell’accordo, il marchese e la comunità di Arischia. Siamo nel 1922. La “battaglia” del Chiarino dopo decennali lotte sociali e rivendicazioni dai contorni epici, appunto come la novella di Verga, è giunta al suo termine, e quel che resta, prima che la nebbia rapida e veloce ci avvolga, resetti la montagna, è un’aquila che sopra di noi volteggia, ci osserva, e tra le correnti ascensionali scompare dietro monte Corvo. Quando ridiscendiamo la valle del Chiarino, il gestore del rifugio “Fioretti”, Domenico Picco, ha forse esagerato nella sua performance gastronomica che ci presenta, e non ha bisogno di commenti. Viceversa, la carrareccia di avvicinamento al rifugio potrebbe avere una maggiore attenzione per la manutenzione, cosi come il perimetro dello stesso rifugio, porta d’ingresso in una montagna dell’Appennino Centrale che non smetterà mai di raccontare storia e storie, anche a nostra insaputa…

Un particolare ringraziamento ad Abramo Colageo, documentarista e storico locale di Arischia.